Una specie di silenzio (di nuovo)

A volte ci sentiamo trasparenti come i vetri di certe vecchie pensiline degli autobus di Roma sud; e in questa trasparenza pare che tutti quelli che incontriamo possano leggerci dentro, fin giù nel profondo.

Gli occhi delle persone ci fanno sentire nudi come vermi. Non siamo mica pronti a mostrarci diroccati come certe case di campagna con i muri che stanno su per miracolo, con le edere rampicanti e i caprifogli ad adornare i luoghi in cui un tempo vi è stata la vita, le famiglie numerose, le diaspore, le madri che accudiscono i figli, i padri che tornano quando si fa notte.

Le persone che ci guardano, dicevo, sembra che si affaccino fin dentro le profondità del cuore dove compaiono dei volti; dove nascondiamo la voce dei nonni che col tempo ci sembra di dimenticare; dove si rifugiano i ricordi di alcune notti trascorse a contorcersi e a mischiarsi fino a sparire nell’indistinto di una risata interrotta o di un pianto che di colpo s’arresta (e fa traballare tutto).

Ma quanto erano belle quelle giornate di merda, trascorse senza fare nulla, ad agosto, nelle città deserte con gli amici scomparsi a fare villeggiatura, il mistero dei cugini che a settembre fanno l’amore con le slovene; queste settimane infinite col sole che ci scoperchiava la testa e poi i temporali estivi che arrivavano di colpo per le nostre fughe storiche?

Sto divagando.

Su questo pianeta l’essere umano vive mediamente 73 anni. 26.754 giorni e qualcosina avanza. Raccontiamo sempre l’inizio e la fine delle nostre vicende perché ci ispira un sentimento di speranza oppure lo struggimento della fine delle cose. Inizio e fine, tutto il resto sembra che non abbia significato.

Consiglierei di attendere che le tempeste facciano il loro corso e poi vadano verso l’altrove. È al centro degli inizi e dei gran finali che avviene la vita.

 

 

 

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