Appunti maltesi III

Ir-Rabat è una cittadina che si trova proprio al di fuori delle mura di Mdina. Il nome, lo stesso della capitale del Marocco – a segnare, se ce ne fosse bisogno, la continuità culturale con il maghreb – significa in arabo “sobborgo”, essendo in origine una frazione di Mdina.

Oggi i rapporti tra le due cittadine si sono invertiti e Mdina è divenuta “la città silenziosa”, abitata da poche centinaia di persone che vivono in queste strade pulite e austere. Il loro silenzio, mentre la attraverso, è rotto solo dai pochi turisti e dal vociare dei ragazzi di alcune classi di scuola primaria che procedono nelle vie in fila per due.

Arrivato in Pjazza tal-Arcisq, mi trovo davanti alla maestosa Cattedrale metropolitana dell’arcidiocesi di Malta, eretta in onore di San Paolo nel luogo in cui, secondo la tradizione, il governatore Publio avrebbe incontrato l’apostolo dopo il naufragio della nave che lo trasportava a Roma. L’evento è raccontato anche negli Atti degli Apostoli: “Dopo essere scampati, riconoscemmo che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni usarono verso di noi bontà non comune; infatti ci accolsero tutti intorno a un gran fuoco acceso a motivo della pioggia che cadeva e del freddo” (At 28,1-2).

All’interno, oltre a me, c’è solo una guida ad indicarmi l’accesso. L’impianto è quello proprio di molte chiese: a croce latina con una navata centrale su cui il palermitano Antonio Manno ha dipinto un ciclo di affreschi raffiguranti alcuni episodi della vita di San Paolo. Camminando nel silenzio più assoluto della chiesa, resto incantato ad osservare l’abside di sinistra, chiuso dietro una cancellata che tiene a distanza i visitatori dalla Cappella del Santissimo Crocifisso, scultura di Innocenzo da Petralia.

Se Mdina è ferma nel tempo è ir-Rabat la città che, invece, è viva e custodisce, al di sotto, i suoi misteri: 2000 mq di cunicoli sotterranei divisi in diversi complessi, il più celebre dei quali è quello di San Paolo.

Mi spiega la guida che le catacombe furono usate come luogo di sepoltura per 500 anni dal III secolo d.C. in poi. Oggi, sebbene gli ingressi siano numerosi e visitabili, la maggior parte restano inaccessibili a causa della pericolosità o degli spazi angusti. All’interno delle catacombe si trovano anche delle piccole salette per l’Àgape, la ritualità comunitaria dei primi cristiani che si riunivano, dopo o durante i riti, per consumare un pasto in comune.

Ma non sono giunto in questa parte dell’isola solo per visitare Mdina e Rabat, a dire il vero. Mi sono spostato a piedi, nel pomeriggio, verso la cittadina di Dingli, attraversando la quale sono giunto ad una scogliera che finisce a picco sul mare.

Ho camminato per oltre un’ora, lasciando la strada principale e finendo in queste piccole stradine strette, delimitate dagli iconici muretti a secco che tracciano percorsi e vie in tutta l’isola. Raramente mi è capitato di incrociare un’automobile mentre, spesso, ho incontrato donne e uomini a piedi, oppure a cavallo o su questi calessini leggeri a due ruote trainati dai cavalli da trotto.

Alla fine di questa escursione sono davanti la minuscola Cappella dedicata a Maria Maddalena. Semplice, rurale, essenziale. Dentro ospita alcuni piccoli presepi, disposti attorno all’altarino. La sua struttura, eretta sulla sommità della scogliera, è davvero suggestiva. Guardando verso il Mediterraneo, 250 metri più in basso, compare una piccola barca con la randa e il genoa gonfi. Ad occhio, considerata la direzione del vento, mi pare stia risalendo di bolina e presto dovrà fare una virata per andare avanti: chissà come sarà, dal mare, osservare la scogliera, vedendo questa piccola e solitaria chiesetta che è qui immobile da secoli?

Mi accorgo di essermi perso nei miei pensieri.

Poco prima delle 17:00 il sole sta tramontando ma io sono arrivato in tempo al mio appuntamento. Volevo raggiungere la scogliera esattamente a quest’ora, per vedere il Mediterrano e rispettare una promessa fatta non solo a me stesso.

Sono seduto su una panchina lungo il promontorio e il mare mi ignora tranquillo: adesso si è fatto tutto rosso e lo scirocco spira alle mie spalle. Siamo in pochi: intorno a me ci sono donne e uomini, tutti che guardano lontano. Sono sicuro che tra loro ci siano gli incompleti che vogliono fare esperienza della nostalgia, che si sono strappati, che hanno perso pezzi e ora provano a rimettere tutto a posto andando avanti, di rammendo in rammendo, inseguendo i punti che tenevano unite le cose del passato.

Non posso raccontarvi con le parole cosa io abbia provato e, con me, cosa stava provando l’uomo che faceva esperienza del divino, indossando la djellaba e recitando la ṣalāt rivolto verso il mare; cosa pensassero i due ragazzi che si stavano confondendo in un abbraccio che benediceva tutti noi; o cosa cercasse quella ragazza asiatica che proveniva dal luogo in cui il sole nasce.

Siamo tutti in attesa che il giorno si compia e finisca.

Mentre scrivo queste ultime parole, sto tornando indietro sulla strada per Rabat. Tra le vie di Dingli, illuminate con le lucernarie di Natale, familiarizzo con una specie di vuoto. Mi domando: questo tramonto l’ho perso per sempre o resterà dentro di me?

Mi sento fragile nel cercare di custodire l’effimero. Possa la sua luce continuare ad accompagnarmi cospirando con tutti i crepuscoli che furono e quelli che verranno.

 

Foto di Magdalena Smolnicka su Unsplash
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