Non farti fottere dalla (N)ostalgia IV

Io ho da sempre un rapporto conflittuale con gli aeroporti.

“Da sempre” si fa per dire, visto che ho cominciato a frequentarli con continuità solo negli ultimi anni. Precisamente a partire da un volo di lavoro Roma – Fiumicino in direzione Palermo – Punta Raisi. Prima, lo dico senza vergognarmene, non ne avevo mai preso uno. Non conoscevo le divisioni dei terminal, come funzionano i check-in, gli imbarchi e tutte le norme che vanno seguite prima di prendere un volo.

Confesso che non sono mai riuscito a liberarmi di quella sensazione di profondo smarrimento che mi lasciano sulla pelle i terminal aeroportuali, tutti. Anni fa, in una notte insonne trascorsa a smanettare su reddit,  avevo trovato casualmente la chiave per decifrare questo sentore. Alcuni utenti, infatti, avevano cominciato ad utilizzare il concetto di “spazio liminale”, cercando di darne una definizione che non fosse vaga. Vi è mai capitato di vedere una fotografia di un luogo spoglio, momentaneamente inabitato, come potrebbe essere la sala di attesa di un medico, il corridoio di una scuola, un parcheggio, la hall di un hotel, le saracinesche di un centro commerciale, luoghi che non avete mai visto prima e che pure vi paiono familiari? Quelli sono tutti luoghi “liminali“, “frontiere” che attivano i nostri ricordi, alimentando i déjà-vu e quella sensazione di intimo straniamento che ci coglie a volte senza motivo.

L’aeroporto è il non-luogo per eccellenza: non è uno spazio dell’abitare, è un gigantesco hub, reso vivibile da alcuni comfort che variano a seconda della dimensione e dell’importanza dello snodo e vi sostiamo per il tempo utile ad incrociare arrivi e partenze. Non c’è nulla che mi lasci più spaesato di un aeroporto e questa sensazione è solo amplificata quando ti trovi in un vecchio terminal di un aeroporto bulgaro, ad osservare il viavai delle persone che corrono come formiche impazzite, ognuna verso il proprio gate.

Sono nella zona del controllo bagagli e sto cercando, sui monitor, l’indicazione dell’imbarco verso Roma Ciampino. Credevo di dover fare 20 minuti a piedi per andare in un altro terminal e invece mi è andata bene. Davanti a me c’è questa famiglia che probabilmente viaggerà verso l’Italia: una piccola bimba bionda che piange, stringe forte un signore più anziano che cerca di non mostrarsi commosso. Lei non lo vuole lasciare. La mamma, sicuramente bulgara, la rincuora in italiano: “Amore non fare così. Nonno lo rivedrai presto!”.

L’aeroporto è un insieme disordinato di pezzi di storie familiari e di traiettorie. Una volta, alcuni anni fa, durante un trasloco fatto in compagnia di Marco (quella notte mi risparmiò di finire in questura, ma questa è un’altra storia!), gli raccontavo che non c’è nulla di peggio, quando ti senti molto infelice, di dover attendere una coincidenza davanti agli arrivi, dove incontri uomini e donne di tutte le età con regali e mazzi di fiori, con gli occhi pieni di speranza ogniqualvolta si spalancano le porte automatiche, dopo lo sbarco e il controllo documenti. Le loro paiono sempre storie felici mentre noi, in quel momento, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci comprenda nel profondo e fraternizzi con il nostro stato d’animo.

Scrivo queste parole un po’ alla rinfusa, passando in rassegna mentale alcuni voli presi in passato, mentre un caffè americano sbuffa davanti ai miei occhi. Sovrappensiero, invece di chiedere un “espresso” o un “italian espresso” ho ordinato un “caffè” come se fossi a Roma e ora mi tocca questa brodaglia, mischiata con la malinconia e l’odore tipico dei duty free.

Tra qualche minuto ho l’imbarco. C’è questa ragazza che piange per la paura di volare. Aveva preso il mio stesso volo all’andata, urlando quando l’aereo sobbalzava per i vuoti d’aria e ora ci incontriamo di nuovo anche al ritorno. La mamma, che la stava consolando, mi riconosce e mi dice, per sdrammatizzare: “Siamo le stesse che hanno dato spettacolo sul volo d’andata. Mi spiace che le tocchi sentirci anche al ritorno!”. La ragazza mi guarda un po’ imbarazzata, non voleva farsi vedere con le lacrime. Rispondo, facendo un cenno con il capo verso la figlia: “Signora ma se lei grida a me va bene, l’importante è che non le facciano guidare l’aereo!”. La ragazza si fa una risata e per un attimo lei smette di piangere e io smetto di pensare.

Fuori il cielo è di un grigio desolato ma va benissimo per le partenze e pure per i ritorni in questi tempi incerti. Se qualcuno mi avesse visto nel cuore, in fila per l’imbarco, vi avrebbe trovato il volto delle donne e degli uomini incrociati in questi giorni, il profilo delle fusoliere che si perdono tra le nubi, il riflesso delle insegne luminose sulle motrici dei tram e i baci e le risa che si scambiavano quei due ragazzi aggrovigliati sulla panchina al Parco Puskhin. Era l’epicentro esatto del pianeta Terra da cui ho visto tramontare e poi sparire tutte le cose; era il luogo in cui ho pensato: speriamo davvero che il futuro arrivi e, guardandoti negli occhi, ti sorrida.

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