Non farti fottere dalla (N)ostalgia III

Per 43 anni in Bulgaria ha governato il Partito Comunista, 35 dei quali sotto la guida del compagno Todor Živkov. Nessuno in tutto il blocco orientale ha governato quanto lui. Estromesso dal potere nel 1989, il Paese era tecnicamente in default già due anni prima. Morì nel 1998 di polmonite e gli vennero negati i funerali di Stato. Questa fu la sua parabola umana, in brevissimo.

Parlo con Nikolay nel giardino di un museo di arte e cultura socialista, nella periferia di Sofia, dove hanno ammassato decine di statue e teste letteralmente segate durante le manifestazioni di piazza per festeggiare la fine del regime. “Abbatterono le statue e le portarono qui”, mi dice. Immagino che una volta tagliate queste enormi teste di Lenin, non sapessero cosa farne nell’immediato. A metà degli anni ’70, mi racconta che il Paese aveva un Coefficiente di Gini pari a 18, il più basso al mondo. Io non ne avevo mai sentito parlare: mi spiega che più questo valore è prossimo allo zero, più il Paese ha un livello basso di diseguaglianze. In aeroporto, mentre attendevo il volo di rientro, ho controllato i valori dell’Italia negli stessi anni: eravamo sopra quota 40, giusto per fare un parallelismo facile da comprendere per tutti.

A prescindere dai numeri che non sono in grado di restituire mai la complessità del quotidiano, non è semplice capire quale sia il rapporto che hanno oggi i bulgari con il loro passato: c’è una grande nostalgia, quella sì. Nostalgia che, dai racconti, ho potuto decifrare non tanto come rimpianto per il modello politico-istituzionale perduto ma per un’epoca di grande stabilità e tranquillità: studiavi, facevi sport, dopo le scuole andavi a lavorare secondo le tue disposizioni e attendevi l’estate per percorrere con amici e familiari, in autobus, i 500 km che ti conducevano sul Mar Nero, dove le famiglie trascorrevano gratuitamente le vacanze estive nelle colonie a giocare a carte, chiacchierando o guardando in tv gli sceneggiati del “primo canale” di Stato, che poi, per decenni, è stato l’unico, anche se i vecchi televisori erano programmati per permettere la visione di 8 canali diversi.

Un mondo più semplice e una protezione sociale maggiore, certo, ma anche tanta povertà. Penka, che gestisce e custodisce gelosamente un curioso appartamento aperto al pubblico, rimasto in tutto e per tutto identico a com’era agli inizi degli anni Ottanta, mi raccontava quanto fosse complicato l’ottenimento di un alloggio per una famiglia, lungaggini burocratiche che determinavano spesso l’obbligo di convivenza degli sposi nelle case dei genitori per mesi; e ancora, gli elettrodomestici presenti nelle case – i “ceti medi”, tendenzialmente, avevano lavatrice, forno e frigorifero – costavano poco più della metà di un buono stipendio da ingegnere. In aggiunta a questo, vi era una quotidiana e incomprensibile penuria cronica di materie prime, considerate le buone disponibilità di carbone, gas e terre adatte alla coltivazione; penuria che, paradossalmente, si tramutava in razionamenti giornalieri dell’energia elettrica a causa dell’aumento della domanda interna negli anni di crescita economica più sostenuta. Per non parlare poi della paura quotidiana dei controlli dei servizi bulgari, la dăržavna sigurnost, il cui nome divenne famoso per l’uccisione dello scrittore dissidente Georgi Markov, a Londra, nel 1978, con un ombrello in grado di sparare alle gambe un proiettile di ricina.

La custode dell’appartamento mi spiegava che questa sensazione di nostalgia – gli storici parlano di “ost-algie”, la “nostalgia dell’est” – è determinata non dal rimpianto verso il comunismo quanto dalle promesse tradite dal presente: i costi sociali della transizione dalla pianificazione socialista al capitalismo furono tremendi in Bulgaria e non ebbero precedenti in tutto il blocco socialista: disoccupazione alle stelle, chi aveva soldi in banca li perse a causa dei fallimenti degli istituti di credito, così come molti anziani si trovarono senza assegno pensionistico a causa del fallimento dei fondi.

Cammino lungo l’affollatissima Vitosha Boulevard – la “Via Condotti di Sofia” – e mi rendo conto della fusione a freddo che è avvenuta in due decenni: vedi palazzi decrepiti, di fianco a begli edifici primo novecenteschi a cui seguono edifici in pieno brutalismo socialista, senza interruzione di continuità. Le facciate dei palazzi sono illuminate a giorno da questi neon allucinanti e allucinatori di Kfc, Domino’s Pizza, McDonald’s con le scritte in cirillico. Un’avvilente violenza estetica nella forma e nel contenuto.

Ad un mercatino delle pulci, infine, parlo una decina di minuti con questo commerciante anziano un po’ suonato, con un lungo cappotto di pelle nera addosso, di due o tre taglie più grande di lui, che prima mi vuole rifilare un Panerai falso e poi cerca in ogni modo di vendermi un cazzo di berretto da carrista dell’esercito bulgaro. Mi dice che è bellissimo e che ne ha uno uguale con cui va in giro perché gli ricorda i bei tempi andati e me lo mostra anche: “But this is mine. My military service!”, si affretta a chiarire.

Ancora mi chiedo come io abbia fatto a resistere dall’acquistarlo.

Forse perché mi manca il carroarmato (ci sto lavorando).

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