Non farti fottere dalla (N)ostalgia II

Quello che ho capito visitando la città e intrattenendomi con qualche guida è che il luogo in cui sorge Sofia, la Bulgaria centro-occidentale, è stato da sempre luogo di straordinari transiti umani e culturali.

Prima si insediarono i Traci. Poi arrivarono i Serdi, popolazioni celtiche che abitarono la Tracia e dalla storia in parte sconosciuta, come mi conferma Monika, una guida museale: “Erano tribù, non ne sappiamo molto”. Giunsero i romani che convertirono tutti, ma rimasero comunque in uso i vecchi riti pagani. In queste terre vissero poi slavi e proto-bulgari; furono fondati i khanati, l’impero bizantino e poi si imposero gli ottomani; ancora, vi sorse lo Stato moderno che combatté le guerre balcaniche, venne instaurata la monarchia e, nel secolo breve, i bulgari vissero 43 anni di socialismo reale sotto l’egida di Mosca. Questo quadro approssimativo lascia immaginare la grande varietà culturale di questi luoghi nei quali le fedi convivono nella reciproca tolleranza e le storie si mescolano.

Scendo lungo la trafficata Knyanginya Maria Luiza e mi ritrovo davanti la moschea ottomana Banja Baši in cui le donne e gli uomini, scalzi, distesi sopra questo tappeto rosso, recitano le Sure coraniche pronunciando prima la basmala “in nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso”. Posso fermarmi ad ascoltare; per entrare, devo essere scalzo e avere le braccia e le spalle coperte ma la moschea è aperta anche ai cristiani, perché portano il messaggio del Messia, Ibn Maryam, figlio di Maria. “La pace su di lui”, dicono, testimoniando l’unità originaria di tutte le fedi. A pochi metri da lì, dietro al mercato centrale, sorge il neo-moresco della meravigliosa sinagoga di Sofia e tra i marmi di Carrara pregano gli ebrei ortodossi che non hanno terminato la tefutzah, la diaspora; e ancora, visito la piccolissima Tsurkva Sveta Nikolai, la Chiesa dell’ortodossia russa e all’esterno mi ritrovo ad ammirare la cura di un anziano che raccoglie tutte le foglie degli alberi cadute nel giardino, attento a non lasciarne nessuna in terra. Mi commuovo davanti una pala d’altare tutta d’oro nella Chiesa dei Sette Santi, la Sveti Sedmochislenitsi: una mamma solleva la figlia per permetterle di poggiare una candela davanti l’icona ortodossa del Cristo e in quella luce soffusa, che congiunge i due volti, si realizza la perfetta deificazione dell’uomo davanti all’Icona, a testimonianza e suggello della fede. Dopo alcune fermate di metro e quaranta minuti di autobus, invece, mi ritrovo in un bosco nella periferia di Sofia a vedere, finalmente, la Chiesa di Bojana che mi aveva mosso al viaggio: fuori è anonima e vi sono alcuni motivi architettonici sgraziati, addirittura novecenteschi, fuoriluogo rispetto al contesto. Il suo tesoro però è nascosto nel seminterrato: affreschi con volti espressivi, vivi, profondi, rinascimentali, realizzati 8 anni prima della nascita di Giotto e resto stupito ad osservare un’ultima cena all’interno di una nicchia, sulla sinistra.

Credevo di essere arrivato lì per vedere quest’opera d’arte nascosta ma, alla fine di questo personale pellegrinaggio, il “destino” mi attendeva nella Cattedrale di Aleksandr Nevskij, costruita per rendere omaggio agli oltre 200.000 soldati che morirono nella guerra russo-turca. Entrando, mi ritrovo dentro una cattedrale interamente ricoperta di alabastro, illuminata debolmente dagli imponenti candelabri che scendono da un soffitto alto più di 40 metri.

Ero davanti ad un’icona del Cristo Pantocratore, cara all’ortodossia, tipica dell’arte bizantina. Chiedo ad un pope ortodosso che camminava nella cattedrale cosa significhino le parole riportate, in cirillico, sul libro che ha in mano il Cristo raffigurato. Lo sguardo nel dipinto mi stupisce, è magnetico; sembra voglia dirmi: non guardare me, leggi qui.

Sono fortunato perché il pope conosce l’inglese e mi risponde. Mi dice, indicandomi il libro: “È l’insegnamento più difficile: Ama il tuo nemico. Io torno presto

 

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