C’è qualcosa di disturbante nelle cinque ore e mezza di tortura psicologica a cui abbiamo assistito ieri, guardando la finale del Roland Garros.
Una partita esaltante, drammatica, che nemmeno Spike Lee, Dustin Hoffman o Natalie Portman – pur avvezzi a certi tipi di tensione filmica – avrebbero potuto immaginare, seduti lì a osservare due poveri diavoli consumarsi sulla terra rossa.
Sinner è stato il primo finalista maschile italiano a Parigi dal 1976 e ha collezionato una sconfitta che non si può definire in altro modo se non con l’aggettivo “maestosa”. Le finali si perdono, certo. Ma di fronte a tre match point consecutivi – e ad altri quattro o cinque sfuggiti a un paio di punti dal sogno – vedere Sinner non riuscire a chiudere, a trovare quel colpo necessario per piegare la resistenza di Alcaraz, mi ha riportato alla mente le disgrazie di Sisifo: l’uomo condannato dagli dèi a spingere un masso fino alla cima della montagna, solo per vederlo rotolare giù ogni volta. Una fatica infinita, circolare, senza premio.
Ogni scambio dominato e ogni fiammata di talento dell’altoatesino sembravano spinte verso quella vetta invisibile. Poi, all’improvviso, il talento cristallino del murciano si manifestava: ace imprendibili, drop volley chirurgici, dritti lungo linea clamorosi, e quel ¡Vamos! che certificava la caduta del masso. Di nuovo tutto da rifare. Ancora, ancora e ancora.
Durante le cinque ore e mezza di match una serie di pensieri mi hanno percorso: ho ripensato all’assenza per squalifica dalle competizioni, poi ad alcune polemiche di questi mesi, alimentate da un pezzo di paese che, nonostante la storica e impensabile doppietta in Coppa Devis con la maglia azzurra, si riconosce nella definizione che gli ha cucito addosso lo scrittore Corrado Augias: Sinner come “italiano riluttante”.
Ripensavo a quella definizione osservando i quindicimila del Court Philippe Chatrier che, nei primi due set, avevano mantenuto un prudente equilibrio (fino al 2-0) prima di “cedere”, davanti alla remuntada, ad un appassionato tifo anti-italiano a sostegno dello spagnolo che si portava il dito all’orecchio, chiedendo ad un pubblico già adorante di fare di più.
Sollecitato a commentare la sgrammaticatura del campo centrale, Sinner , dopo il match, ha risposto come chi a 23 anni ha già imparato a stare al mondo: “il pubblico è importante in questo sport. È importante che a volte ti aiuti e credo che a volte abbia aiutato me”. Nessuna polemica, quindi.
Sinner non è come molti tennisti italiani del passato e del presente – da Panatta a Fognini, da Berrettini a Pietrangeli – capaci di soddisfare ogni nostro appetito mediatico, emotivo ed estetico. È qualcosa di diverso, ed è proprio ciò di cui abbiamo bisogno oggi: non un “italiano riluttante” ma, semmai, un “italiano di frontiera”, asciutto, silenzioso e un po’ schivo. Figlio di un cuoco di rifugio e di una cameriera, cresciuto lontano dai riflettori, in un angolo d’Italia segnato storicamente da confini, divisioni e tensioni culturali. Uno spazio che oggi, però, rappresenta un luogo di contaminazioni e convivenze. Una terra di confine, lontana dai circoli romani del tennis, che incarna un modo profondamente italiano di stare al mondo: mai tutti uguali, sempre tutti diversi e a volte divisi.
Prima parlavo del mito di Sisifo. “Ho dato tutto ma stanotte non dormirò”, ha detto Jannik dopo la partita. Nel vedere uno dei più grandi sportivi del nostro paese abbracciare la sconfitta per ricominciare di nuovo a trascinare il masso verso la cima della montagna, si può solo sperare che guardi avanti già da stamattina, imparando la lezione assurda e paradossale di Camus: “dobbiamo immaginare Sisifo felice”.