L’ethical washing per i Mondiali di Qatar 2022

Tra tre giorni comincia il mondiale: i primi a scendere in campo saranno le selezioni di Qatar ed Ecuador a Doha, Stadio Al Bayt.

Dodici anni fa proprio al Qatar – uno Stato poco più grande dell’Abruzzo e con poco meno di 3 milioni di abitanti – è stata assegnata l’organizzazione del mondiale di Calcio, l’evento sportivo più importante della nostra epoca e che muove intenzioni ed emozioni tra gli sportivi di tutto il mondo.

Teniamo bene a mente questi numeri per capire di che cosa stiamo parlando perché se c’è qualcosa che sorprende è che le rassegne stampa di queste settimane hanno scoperto l’evento tre o quattro mesi fa. Eppure sono trascorsi 12 anni da quando l’establishment mediatico e calcistico planetario ha scoperto che nel 2022 si sarebbe giocato un mondiale di calcio letteralmente in mezzo al deserto, in un Paese governato da una monarchia assoluta, nella quale un emiro è il capo del governo e nomina i membri della shura, una sorta di Consiglio dei Ministri; un Paese nel quale le prime elezioni politiche, sempre per la cronaca, si sono tenute il 2 dicembre 2021.

Una settimana fa l’allenatore della Lazio, Maurizio Sarri, si chiedeva perplesso quale contributo il Qatar può dare al movimento calcistico mondiale. La risposta è cristallina: nessuno. Da un punto di vista calcistico, infatti, la nazionale del Qatar non si è mai qualificata ad un mondiale. In mezzo ad una selezione di carneadi, gli unici giocatori non completamente sconosciuti agli appassionati-feticisti dell’almanacco calcistico planetario sono Almoez Ali e Akram Afif, transitati in Europa senza particolari successi e ritornati presto in Patria a segnare valanghe di gol in un campionato qualitativamente scadente, popolato, di tanto in tanto, di qualche vecchia e gloriosa bandiera del calcio che conta. Hanno giocato in Qatar: Guardiola, Batistuta, Hierro, Romario, Caniggia e molti altri. Mi chiedo quanti di loro avrebbero saputo collocare il Paese sulla cartina geografica, prima di terminare la loro avventura sportiva sommersi da milioni di petrodollari.

È “l’odore dei soldi” ad aver permesso tutto questo. Non vedremo mai, infatti, campionati del mondo di calcio ospitati in Burundi, Congo, Niger, Malawi o tra i Paesi con il Pil più basso al mondo, ma in Qatar sì. Vedremo la kermesse calcistica mondiale seduti su una montagna di cadaveri: quelli dei lavoratori, in gran parte giunti dal Bangladesh, dall’India e dal Nepal – oltre il 90% della forza lavoro impiegata, stando ai dati di Amnesty – e che hanno lavorato, in questi dodici anni, in condizioni ambientali impossibili per permettere ad un Paese così piccolo (e con poca mano d’opera), di ospitare il mondiale. Parliamo di un evento che muoverà fino ad 1,5 milioni di persone, a cui vanno garantite le strutture ricettive, tutto il sistema della logistica e i servizi pubblici essenziali per ospitare i turisti in modo sicuro e confortevole.

Fanno sorridere, infine, le polemiche e le iniziative di queste settimane: c’è chi giocherà col fiocco nero al braccio, chi ha polemizzato sulla mancanza di libertà democratica nell’emirato, chi si è indignato per l’acquisizione dei diritti tv e chi reputa allucinante lo stravolgimento dei calendari di tutto il mondo per giocare a Dicembre. C’è pure la “frugale” e politically correct Olanda che metterà all’asta le maglie “per i lavoratori migranti” sfruttati. Le “anime belle”, insomma, si sono accorte che questo mondiale è stato, prima di tutto, un capolavoro di soft power e geopolitica a scapito dei diritti umani. Ma ormai è troppo tardi per tornare indietro e allora basta una bella iniziativa, un po’ di ethical washing a favore di telecamera e lo spettacolo può riprendere senza problemi.

Una provocazione: che l’ultima apparizione mondiale degli Azzurri sia avvenuta nel 2014 (colpo di testa di De Sciglio ai supplementari contro l’Uruguay) e che forse rivedremo un torneo mondiale, si spera, nel 2026, è per me una ferita ancora aperta. Permettetemi però di dire grazie ai nostri ragazzi, al filotto di match-point sprecato dall’Italia e al colpo da biliardo di Trajkovski che ha fatto fuori l’Italia e regalato altri 90 minuti di speranze alla Macedonia del Nord, liquidata poi dal Portogallo. Ci fossimo qualificati anche noi a questa meravigliosa pagliacciata – un mondiale nel bel mezzo del nulla – , non sono sicuro che ci saremmo tirati indietro dal mettere in atto qualche insopportabile iniziativa a favore di telecamera.

Per quanto mi riguarda, io resto dalla parte di quei calciatori aspramente contestati che, invece di farsi “tirare per la maglietta”, hanno preferito dire: “io gioco a calcio e basta” contro ogni conformismo ridicolo che non rende meno gravose le responsabilità di chi avrebbe potuto fermare tutto ma non ha fatto niente per dimenticanza, noncuranza o, peggio, per interesse.

E allora lode a Trajkovski:

 

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